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martedì 10 Dicembre 2024

Crisi pandemica – Emergenza dell’occupazione femminile

2021 02 04 pandemia e occupazione femminileCrisi pandemica e occupazione femminile – “Sono allarmanti gli ultimi dati ISTAT sugli andamenti dell’occupazione che nel mese di dicembre evidenziano il vero e proprio tracollo dell’occupazione femminile nel nostro Paese, all’indomani della pur timida ripresa registrata invece nel periodo luglio/novembre” – così ha dichiarato il Segretario Generale della UIL RUA Attilio Bombardieri. “La crisi ha colpito in maniera pesante l’occupazione femminile. Non vogliamo nemmeno immaginare cosa potrà succedere ad aprile se non saranno rinnovati i vincoli e il blocco dei licenziamenti.

Intanto a tenere in massima parte sono stati i settori pubblici (istruzione, sanità, pubblica amministrazione e i nostri settori della ricerca ed alta formazione) a garantire un consistente (seppur ancora insufficiente) occupazione femminile. Ci preme ricordare che la crisi pandemica anche nei nostri settori ha avuto ricadute negative sull’attività lavorativa delle donne”

“Le risorse del Next Generation EU devono essere utilizzate per incentivare l’occupazione femminile e garantire il mantenimento dei posti di lavoro”

Nello scenario complessivo, molto preoccupante dell’economia italiana – decrescita nel 2020 del PIL di quasi il 9% su base annua e 2% nell’ultimo bimestre – gli ultimi dati ISTAT sugli andamenti dell’occupazione nel mese di dicembre evidenziano il vero e proprio tracollo dell’occupazione femminile nel nostro Paese, all’indomani della pur timida ripresa registrata invece nel periodo luglio/novembre.

Nell’ultimo mese dell’anno la perdita di posti di lavoro risulta, infatti, pressoché esclusivamente femminile: dei 101 mila nuovi disoccupati 99 mila sono donne!

Anche nel confronto generale 2020 – perdita complessiva di 444 mila unità – la componente femminile paga il prezzo più alto alla crisi economica e produttiva: 312 mila donne perdono il posto del lavoro a fronte di un ulteriore disoccupazione maschile di 132 mila unità. In aumento molto sensibile rispetto giugno 2019, quasi del 10%, anche il numero di donne costrette a scegliere di lasciare il lavoro o impossibilitate a cercarne uno (qualcosa come 700 mila donne inattive con un impatto maggiore nelle fasce giovanili). Quasi mezzo milione di donne ha perso il posto di lavoro su un totale di poco più di 800 mila nuovi disoccupati, su base annua.

Non vogliamo nemmeno immaginare cosa potrà succedere ad aprile se non saranno rinnovati i vincoli e il blocco dei licenziamenti. Intanto a tenere, in massima parte, sono stati i settori pubblici (istruzione, sanità, pubblica amministrazione e i nostri settori della ricerca ed alta formazione) garantendo una consistente (seppur ancora insufficiente) occupazione femminile. Ci preme ricordare che la crisi pandemica anche nei nostri settori ha avuto ricadute negative sull’attività lavorative delle donne.

Commentatori, politici ed osservatori hanno individuato le cause di questo fenomeno in particolare nelle differenze profonde esistenti tra la crisi economica del 2007-2008 (che ha colpito soprattutto i settori industriali) e quella conseguente all’attuale emergenza sanitaria, nociva soprattutto per il settore dei “servizi”, settori nei quali l’occupazione femminile è sicuramente più “addensata”.

Tutto vero, condivisibile e pienamente comprensibile.

In effetti come non considerare che le caratteristiche del lavoro femminile – prevalenza dell’occupazione a termine, del lavoro autonomo, delle forme part-time, del settore dei servizi in particolare ricettivi e ristorativi e dell’assistenza domestica – avrebbero finito di esporre soprattutto le donne alle conseguenze anche economicamente nefaste della pandemia covid-19?

Ma se da un lato questi dati, ulteriormente allarmanti, delle statistiche nazionali possono apparire come tsunami o eventi tellurici – e come tale imprevedibili – tali essi non sono se confrontati con i caratteri strutturali del nostro “mercato del lavoro” che per quanto riguarda in particolare gli “squilibri di genere” sono rimasti sostanzialmente immutati da almeno 10 – 15 anni a questa parte.

E senza che l’insieme di pur importanti e significativi passi in avanti delle “politiche di genere” siano stati in questo lungo periodo in grado di modificare sostanzialmente la situazione.

È vero, quindi, che “la strada per le politiche di genere efficaci è ancora lunga”.

A questi ritardi e a questo carattere “strutturale” della crisi occupazionale femminile – al conseguente richiamo e alle conseguenti assunzioni di responsabilità da parte della classe dirigente e delle rappresentanze sociali – che sono, in verità da più tempo, giustamente rivolti i richiami dei vertici del principale osservatorio statistico istituzionale (ISTAT).

Anche il sindacato, ovviamente, è chiamato ad accentuare il suo già notevole impegno sulle “politiche di genere”. Sapendole legare ancora di più alla rivendicazione di politiche e normative di “sostegno” capaci di modificare andamenti e squilibri, anche territoriali, nel nostro mercato del lavoro che purtroppo ci allontanano sempre più dall’Europa.

Siamo più vicini alla Grecia che alla Germania tanto nel tasso di occupazione maschile che in quello femminile. Per le lavoratrici in particolare il nostro tasso generale di occupazione è del 53,8% a fronte del 76,6% della Germania e del 51,3% della Grecia.

Profondi sono gli squilibri interni tra regione e regione nel tasso di occupazione femminile: si va da un tasso del 70% della provincia di Bologna o di Bolzano al 23% di province come Caltanissetta e Crotone.

Il 16% delle donne in Italia è costretto a non lavorare per prendersi cura dei figli e dei parenti anziani (la media Ue è del 9%). Nel 2019 la metà della popolazione femminile tra il i 25 ed i 64 anni era senza lavoro. Dunque, più della metà delle donne che vivono in Italia è disoccupata ed il motivo non è certo la scarsa voglia di lavorare bensì di farlo in un sistema che penalizza strutturalmente il lavoro femminile ed in una situazione complessiva del welfare che fa gravare sulle donne il lavoro sempre più gravoso di “cura”.

In questo contesto generale quella del Recovery Plan ed anche quella della necessità della costruzione di un nuovo governo del Paese debbono costituire l’occasione “storica” per dare una svolta anche alle politiche occupazionali e di genere nel nostro Paese.

Ricordiamo, in questa direzione, che la questione della parità di genere – a cominciare dal diritto fondamentale al lavoro ed alla emancipazione – è considerata questione prioritaria nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Anche l’Europa con le sue direttive ed i suoi progetti e l’Unesco hanno introdotto iniziative e politiche tese a promuovere la parità di genere e la partecipazione femminile.

Riferendoci anche in questi indirizzi delle grandi organizzazioni fondamentali, a livello internazionale ed europeo, Governi e classe dirigente del nostro Paese, a tutti i livelli, debbono avvertire il dovere di una svolta profonda per politiche occupazionali alternative tese ad abbattere i principali ostacoli alla occupazione femminile e fondate in particolare su: sostegno più forte ai settori in crisi; lotta alla precarietà del lavoro a tutti i livelli; potenziamento dei servizi sociali di facile accesso per le famiglie a prezzi contenuti e di qualità (a cominciare dagli asili nido); condivisione equa dei diritti ai congedi per motivi familiari tra donne e uomini; incentivi al ritorno al lavoro per le donne con figli in età prescolare; nuovi indirizzi delle politiche di orario di lavoro e nelle modalità del lavoro flessibile; incentivi fiscali con passaggio dal sostegno alla tassazione congiunta a quella individuale.

La finale considerazione di un divario occupazionale che persiste nonostante che il livello di istruzione e di preparazione culturale (possesso di titolo di istruzione terziaria o superiore) delle donne del nostro Paese sia superiore di ben 10 punti percentuali rispetto a quello degli uomini deve spingere anche i settori dell’Alta Formazione, Cultura e Ricerca ad aprirsi ancor più al contributo di quella partecipazione femminile che un così qualificato ed alto contributo ha già saputo dare allo sviluppo della scienza nel nostro Paese.

Il Segretario Generale
Attilio Bombardieri

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